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“Il culto per la vita, se è davvero profondo e totale, è anche culto per la morte. Le due sono inseparabili. Una civiltà che rifiuta la morte, finisce per negare la vita”1. Così scriveva Octavio Paz, tra i maggiori intellettuali messicani della seconda metà del Novecento, ne Il labirinto della solitudine, per tentare di descrivere la misteriosa e complessa filosofia del vivere del suo Paese, la cosiddetta mexicanicad, caratterizzata, tra le altre cose, dalla mancanza di una separazione tra la vita e la morte. Senza la morte non ci sarebbe la vita, è una legge di natura. Questo postulato è profondamente radicato nella cultura messicana e ha origini antichissime, diversamente dalla mentalità europea per la quale l’accettazione della morte è un tabù insuperabile. La sacralizzazione della morte del Messico contemporaneo nascerebbe dalla sovrapposizione del culto azteco del dio e della dea dell’oltretomba, Mictlantecuhtli e Mictecacihuatl, figure umane per metà disincarnate.
Le due divinità precolombiane furono assorbite nel corso dei secoli da una nuova immagine sacra la Santa Muerte, la cui venerazione risalirebbe a tre secoli fa anche se è generalmente ritenuto un fenomeno degli ultimi vent’anni. La Santa Muerte o Nina Blanca è rappresentata da uno scheletro che indossa un saio francescano. Il suo principale luogo di culto è divenuto Tepito, uno dei quartieri più pericolosi di Città del Messico e non è un caso.
Negli ultimi anni la “Madrecita” è diventata anche la protettrice della malavita, motivo di imbarazzo per il governo messicano che fatica a riconoscere ufficialità a questo culto come del resto la Chiesa cattolica che la considera un affronto per le sue origini pagane. Tale è la dimestichezza dei messicani con la Morte da farla “Santa”. E questo non costituisce l’unico aspetto straordinario del rapporto del popolo messicano con la morte. Il Messico, come ha più volte sottolineato lo scrittore Pino Cacucci, in virtù della sua pluritrentennale frequentazione di quella terra, “è l’unico posto al mondo in cui si parla di festa dei morti”, una delle giornate più importanti dell’anno per i messicani. Il Día de Muertos, che si festeggia oggi è “un’invenzione meticcia relativamente recente, che riprende alcune tradizioni precolombiane e le fonde con quelle cattoliche”2. Le celebrazioni vanno dalla notte del 31 ottobre a quella del 2 novembre ma sono precedute da un lungo periodo di fervidi preparativi come si usa fare in Europa per il Natale. Ritenuto “una delle espressioni culturali più antiche e di maggiore rilevanza per i gruppi indigeni del Paese”, è stato dichiarato dall’UNESCO “Patrimonio Orale e Immateriale dell’Umanità”. La mestizia e la sobrietà che nel continente europeo e in Nord America caratterizzano il giorno della commemorazione dei defunti, in Messico lascia il posto ad una sorta di variopinto carnevale fatto di danze e sfilate in costume, tappeti di petali arancioni di cempasutichl, il corrispondente del nostro crisantemo, concerti di mariachi dinanzi alle tombe nei cimiteri dove si allestiscono veri e propri banchetti che durano tutta la notte, allietati da fiumi di tequila e mezcal che simboleggiano idealmente un festoso ricongiungimento dei morti con le persone amate. Secondo la tradizione popolare i defunti tornano dall’aldilà per riunirsi con parenti e amici. In virtù di tale antica credenza i messicani sugli appositi altari del Dia de Muertos preparano per i defunti generose e coloratissime ofrendas (offerte) nelle case, nei locali e nelle piazze principali “in bilico tra il kitsch, il meraviglioso e il sorprendente”3. Sugli altari dinanzi alle foto dei morti trionfano le calaveritas, dolcetti di cioccolato e teschi di zucchero colorati e l’immancabile pan de muertos, un pane dolce ricoperto di zucchero. Ogni luogo, pubblico e privato è letteralmente sommerso da teschi e scheletri delle più svariate materie e dimensioni. Protagonista indiscussa è la Catrina di cui esiste anche un corrispettivo maschile, El Catrin, una figura scheletrica vestita di tutto punto, con tanto di cappello alla francese e piume di struzzo, parodia delle signore dell’alta borghesia messicana di primo Novecento. Questo reportage, da cui si evince lo stupore e la curiosità dello sguardo europeo dinanzi ad un evento così straordinario e inconsueto, tenta più che di spiegare di “fermare”, - caratteristica propria del mezzo fotografico, - soprattutto la paradossale vitalità di questo funerale pittoresco. L’ossatura portante è costituita da una serie di ritratti di persone mascherate da morti o travestiti da Catrina, fedelmente ispirati all’immagine resa nota dalle incisioni di José Guadalupe Posada il quale era solito ricordare, in piena consonanza con lo spirito del Dia de Muertos, “un memento mori collettivo e irriverente”4, che ricchi o poveri, potenti o oppressi, non siamo che ossa che camminano.
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“A cult for life, if it is really deep and complete, is also a cult till death. The two are inseparable. A civilization that rejects death ends up denying life”1. So wrote Octavio Paz, one of the greatest Mexican intellectuals of the second half of the twentieth century, in The labyrinth of solitude, as an attempt to describe the mysterious and complex philosophy of living in his Country, the so-called mexicanicad, characterized, among other things, by the lack of a separation between life and death. Without death there would be no life, it is a law of nature. This postulate is deeply rooted in Mexican culture and has very ancient origins, unlike the European mentality for which the acceptance of death is an insurmountable taboo. The sacralization of the death of contemporary Mexico would arise from the overlapping of the Aztec cult of the god and goddess of the underworld, Mictlantecuhtli and Mictecacihuatl, human figures half disembodied.
The two pre-Columbian deities were absorbed over the centuries by a new sacred image, the Santa Muerte, whose veneration would date back to three centuries ago, although it is generally considered a phenomenon of the last twenty years. Santa Muerte or Nina Blanca is represented by a skeleton wearing a Franciscan habit. Its main place of worship has become Tepito, one of the most dangerous districts of Mexico City, and this is no coincidence.
In recent years, the “Madrecita” has also become the protector of the underworld, a reason for embarrassment for the Mexican government that struggles to recognize the official nature of this cult as well as the Catholic Church, which considers it an affront to its pagan origins. Such is the familiarity of Mexicans with Death, to the point of making it “Holy”. And this is not the only extraordinary aspect of the Mexican people’s relationship with death. Mexico, as the writer Pino Cacucci has repeatedly pointed out, in virtue of his many years of visiting that land, “is the only place in the world where there is talk of ‘the feast of the dead’“, one of the most important days of the year for Mexicans. The Día de Muertos that is celebrated today is “a relatively recent hybrid invention, which takes up some pre-Columbian traditions and merges them with the Catholic ones”2. The celebrations range from the night of October 31st to that of November 2nd, but are preceded by a long period of fervent preparations as is customary in Europe for Christmas. Considered “one of the oldest cultural expressions and of greatest importance for the indigenous groups of the country”, the “Day of the Dead” has been declared by UNESCO an “Oral and Intangible Heritage of Humanity”.
The sadness and sobriety that characterize the day of commemoration of the dead in Europe and North America, in Mexico gives way to a sort of colorful carnival of dances and parades in costume, carpets of orange petals of cempasutichl, the correspondent of our chrysanthemum, concerts of mariachi in front of the tombs in the cemeteries where real banquets are set up that last all night, entertained by rivers of tequila and mezcal that symbolize ideally a festive reunion of the dead with loved ones. According to popular tradition, the deceased return from the beyond to reunite with their relatives and friends. By virtue of this ancient belief, on the special altars of the Dia de Muertos the Mexicans prepare for the dead generous and colorful ofrendas (offerings) in homes, clubs and main squares “poised between the kitsch, the wonderful and the surprising”3. The calaveritas, chocolate sweets and colored sugar skulls and the inevitable pan de muertos, a sweet bread covered with sugar, stand out on the altars in front of the photos of the dead. Every place, public and private, is literally submerged by skulls and skeletons of many varied materials and sizes. The undisputed protagonist is the Catrina of which there is also a male counterpart, El Catrin, a skeletal figure dressed in full dress, complete with a French hat and ostrich feathers, a parody of the ladies of the Mexican upper middle class of the early twentieth century.
This reportage, which shows the astonishment and curiosity of the European look before such an extraordinary and unusual event, attempts, more than to explain, to “stop” - a characteristic of the photographic medium – above all the paradoxical vitality of this picturesque funeral. The backbone is a series of portraits of people disguised as dead or dressed up as Catrina, faithfully inspired by the image made known by the engravings of José Guadalupe Posada, who he used to remember, in full harmony with the spirit of Dia de Muertos, “a collective and irreverent memento mori”4, that rich or poor, powerful or oppressed, we are just walking bones.